CORTE COSTITUZIONALE SU IMMOBILI STORICI N. 345 DEL 2003


Corte Costituzionale, sentenza 28/11/2003, n. 345
(Omissis). Considerato in diritto 1.- La Commissione tributaria provinciale di Genova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 5, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonché altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui limita l'agevolazione fiscale ai fini ICI, ivi prevista, agli immobili di interesse storico o artistico, appartenenti a «privati proprietari», di cui all'art. 3 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico), sostanzialmente trasfuso nell'art. 6 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), con esclusione dunque di quelli, appartenenti ad enti pubblici (o persone giuridiche private senza fine di lucro), di cui all'art. 4 della stessa legge (ora art. 5 del testo unico n. 490 del 1999). 2.- La questione è fondata. 2.1.- La ratio della agevolazione di cui si tratta va individuata in una esigenza di equità fiscale, derivante dalla considerazione della minore utilità economica che presentano i beni immobili di interesse storico o artistico in conseguenza del complesso di vincoli e limiti cui la loro proprietà è sottoposta. In relazione a tale ratio, occorre, dunque, verificare se la distinzione tra gli immobili di interesse storico o artistico appartenenti a «privati proprietari», di cui all'art. 3 della legge n. 1089 del 1939, e quelli di proprietà di enti pubblici o persone giuridiche private senza scopo di lucro, di cui all'art. 4, sia tale da giustificare un diverso trattamento fiscale, o se invece, sotto questo specifico profilo, essa sia manifestamente arbitraria e, quindi, tale da rendere incostituzionale la limitazione dell'agevolazione fiscale su di essa basata. Riguardo agli esatti termini di tale distinzione non si rinviene, peraltro, in giurisprudenza, uniformità di ricostruzioni interpretative. In estrema sintesi, secondo una tesi più risalente, la differenza di disciplina si sostanzierebbe essenzialmente nel fatto che i beni di interesse storico-artistico appartenenti ad enti pubblici e persone giuridiche private senza fini di lucro, a differenza di quelli appartenenti a persone fisiche e società, resterebbero soggetti ex lege alle disposizioni di tutela, senza necessità di alcuno specifico provvedimento da parte dell'autorità competente ed a prescindere anche dalla loro inclusione negli elenchi previsti dallo stesso art. 4. Secondo un diverso indirizzo, che appare prevalente nella più recente giurisprudenza amministrativa, anche i beni appartenenti agli enti pubblici (ed alle persone giuridiche private senza fini di lucro) sarebbero invece sottoposti alla legislazione vincolistica solo a seguito dell'adozione di un atto formale da parte del Ministero per i beni e le attività culturali, differenziandosi il procedimento, nei due casi, solo quanto alla necessità, non richiesta per i soggetti di cui all'art. 4, di una formale notifica dell'atto amministrativo. Indipendentemente dall'opinione che si ritenga al riguardo più corretta, risulta, in ogni caso, pacifico che la distinzione tra le fattispecie di cui agli artt. 3 e 4 della legge n. 1089 del 1939 può eventualmente riguardare le modalità attraverso le quali si perviene, nei due casi, all'individuazione dei beni oggetto di tutela, ma di certo non attiene al regime giuridico cui i beni in questione sono assoggettati, in ragione del loro interesse storico o artistico, identica essendo, nei due casi, la disciplina finalizzata alla loro tutela. Ed è appena il caso di sottolineare che il mancato riferimento, nella norma impugnata, ai beni di cui all'art. 4 della legge n. 1089 del 1939 non può di certo trovare giustificazione né – come sostiene il Comune di Genova - in una presunta maggiore capacità contributiva degli enti pubblici rispetto ai soggetti privati, trattandosi di una presunzione del tutto irragionevole e della quale comunque non vi è traccia nell'ordinamento tributario, né – come assume l'Avvocatura - nella considerazione che gli enti pubblici sono istituzionalmente chiamati al perseguimento di finalità di ordine generale, in quanto ciò naturalmente non può significare che ciascun ente pubblico debba perseguire, oltre ai propri fini istituzionali, anche quelli di tutela del patrimonio storico-artistico della nazione. E ciò a prescindere dal fatto che l'una e l'altra tesi sembrano completamente trascurare la circostanza che l'art. 4 della legge n. 1089 del 1939 non si riferisce solamente agli enti pubblici ma anche alle persone giuridiche private senza fini di lucro. Risulta, pertanto, evidente che la distinzione tra i beni di interesse storico o artistico di cui agli artt. 3 e 4 della legge n. 1089 del 1939 rappresenta un elemento di discrimine manifestamente irragionevole rispetto all'applicazione di un beneficio fiscale che trova – come si è osservato – il suo fondamento oggettivo proprio nella peculiarità del regime giuridico dei beni di cui si tratta. Mentre, d'altro canto, l'esigenza di certezza nei rapporti tributari cui assolve il provvedimento formale previsto dall'art. 3 della legge n. 1089 del 1939 (che, secondo un diffuso orientamento interpretativo, potrebbe mancare, come si è visto, per i beni di cui all'art. 4) ben può essere soddisfatta, per i beni appartenenti agli enti pubblici (o alle persone giuridiche private senza fini di lucro), dalla loro inclusione negli elenchi di cui allo stesso art. 4 della legge ovvero da un atto dell'amministrazione dei beni culturali ricognitivo dell'interesse storico o artistico del bene. Conclusivamente, la norma impugnata va ricondotta a legittimità costituzionale attraverso una pronuncia che ne estenda l'applicazione agli immobili di interesse storico o artistico di cui all'art. 4 della legge 1° giugno 1939, n. 1089. Per Questi Motivi La Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 5, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la definizione agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione della ritenuta sugli interessi, premi ed altri frutti derivanti da depositi e conti correnti interbancari, nonché altre disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75, nella parte in cui non si applica agli immobili di interesse storico o artistico di cui all'art. 4 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d'interesse artistico e storico), ora art. 5 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 novembre 2003.
(Omissis) Considerato in diritto 1.- La Commissione tributaria provinciale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), secondo cui, ai fini delle imposte sul reddito, «il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi dell'articolo 3 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato mediante l'applicazione della minore tra le tariffe d'estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato». La norma – in quanto applicabile, per diritto vivente, anche agli immobili locati – contrasterebbe, secondo il rimettente, sia con il principio di capacità contributiva, in ragione dell'ingiustificata ampiezza del beneficio fiscale attribuito ai proprietari locatori di immobili vincolati, sia con il principio di eguaglianza, a causa, da un lato, della disparità di trattamento rispetto ai proprietari di immobili locati non vincolati e, dall'altro, della omogeneità di trattamento, in deroga ai principi generali in tema di imposizione su reddito dei fabbricati, rispetto ai proprietari di immobili vincolati non locati. 2.- La questione non è fondata. 2.1- Va, anzitutto, precisato che le disposizioni legislative che accordano agevolazioni e benefici tributari di qualsiasi specie possono essere ritenute lesive del canone di ragionevolezza, evocato dal rimettente, nei soli casi della palese arbitrarietà o irrazionalità (cfr. sentenze n. 431 del 1997 e n. 113 del 1996, ordinanza n. 27 del 2001). E ciò vale a maggior ragione quando, come nella specie, la questione di costituzionalità sia diretta a limitare e non ad ampliare l'ambito del beneficio e risulti, quindi, sollevata in malam partem. Passando all'esame della questione, nessun dubbio può sussistere sulla legittimità della concessione di un beneficio fiscale relativo agli immobili di interesse storico o artistico, apparendo tale scelta tutt'altro che arbitraria o irragionevole, in considerazione del complesso di vincoli ed obblighi gravanti per legge sulla proprietà di siffatti beni quale riflesso della tutela costituzionale loro garantita dall'art. 9, secondo comma, della Costituzione. La norma impugnata, d'altro canto, non è nemmeno illegittima, con riferimento sempre al canone di ragionevolezza, nella parte – specificamente oggetto di impugnazione – in cui prevede che il reddito imponibile sia «in ogni caso» determinato mediante l'applicazione della minore tra le tariffe d'estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato, e perciò anche quando l'immobile di interesse storico o artistico sia locato. Il profilo di irragionevolezza individuato dal rimettente sarebbe rappresentato, in buona sostanza, dalla deroga al principio generale posto dall'art. 34, comma 4-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), in tema di determinazione del reddito imponibile degli immobili locati. E' tuttavia evidente che, una volta esclusa – per le considerazioni svolte - la comparabilità della disciplina fiscale degli immobili di interesse storico o artistico con quella degli altri immobili, la censura di irragionevolezza risulta priva di consistenza, in uno con quella, ad essa connessa, di violazione del principio di eguaglianza, essendo l'una e l'altra basate sull'erroneo presupposto della sostanziale omogeneità delle due categorie di beni. Né può ritenersi, sotto un diverso aspetto, superato il limite della manifesta irragionevolezza per il fatto che il beneficio fiscale di cui si tratta si sostanzi in un criterio di determinazione del reddito imponibile fissato, con riferimento alle tariffe d'estimo, in modo indifferenziato tanto per gli immobili locati quanto per quelli non locati e perciò, di fatto, più vantaggioso per i primi. In proposito, a prescindere dal carattere generale del sistema catastale di tassazione degli immobili (sentenza n. 362 del 2000), è sufficiente osservare come il riferimento alle tariffe d'estimo censurato dal rimettente trovi una non irragionevole giustificazione nell'obiettiva difficoltà, evidenziata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità, di ricavare per gli immobili di cui si tratta dal reddito locativo il reddito effettivo, per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni (Cassazione 29 settembre 2003, n. 14480). Considerazione quest'ultima che comporta l'infondatezza della questione anche sotto il differente parametro dell'art. 53 della Costituzione. 2.2.- L'infondatezza della questione di costituzionalità non esclude peraltro l'opportunità di una nuova disciplina della materia che tenga conto non solo, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, della evoluzione del mercato immobiliare e locativo nel frattempo intervenuta (v., ancora, Cassazione 29 settembre 2003, n. 14480), ma anche dell'esigenza di armonizzare la disciplina impugnata con quella, astrattamente di maggior favore, dettata per i contratti agevolati di locazione ad uso abitativo degli immobili (anche di interesse storico o artistico), che prevede una determinazione del reddito imponibile mediante il riferimento al canone locativo, forfetariamente ridotto del 45%, anziché agli estimi catastali (art.8 della legge 9 dicembre 1998, n. 431). Per Questi Motivi La Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Torino, con ordinanza del 14 ottobre 2002, depositata l'11 novembre 2002. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 novembre 2003.

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